L’Egitto potrebbe diventare il prossimo co-presidente del Global Counter Terrorism Forum  (GCTF), insieme all’Unione europea, contribuendo a definire strategie e politiche di contrasto al terrorismo a livello globale per i prossimi due anni.

L’esecutivo di el-Sisi ha fatto del contrasto alla minaccia terroristica uno dei suoi principali strumenti di legittimazione politica, ma la realtà delle sue politiche di sicurezza è fatta di repressione, aggressioni armate a comunità di civili, e sistematiche violazioni dei diritti umani.


Il GCTF, attori e interessi nella sicurezza internazionale


Il Global Counter-Terrorism Forum è un influente organismo internazionale che promuove la cooperazione nella lotta al terrorismo riunendo Paesi, agenzie di sicurezza, forze armate, istituti di ricerca, leader comunitari e religiosi, organizzazioni della società civile provenienti da tutto il mondo. Svolge attività di ricerca per lo sviluppo di sinergie e buone pratiche di prevenzione e contrasto all’estremismo violento, sia attraverso iniziative quali conferenze, corsi di formazione e tavoli di lavoro, che per mezzo del contributo di gruppi di lavoro formati da delegazioni di singoli Stati, enti pubblici e privati.


Se il lavoro del GCTF sembra sotto molti aspetti andare nella direzione della prevenzione dell’estremismo e dei conflitti violenti per mezzo del coinvolgimento attivo di soggetti della società civile e delle comunità locali (sono infatti numerosi gli incontri di formazione e le iniziative finalizzate alla prevenzione del radicalismo e della riconciliazione a partire dall’inclusione di comunità locali e autorità comunitarie e religiose), esiste una parte dell’agenda del Forum che appare decisamente più inquietante: quella della cooperazione tra agenzie di sicurezza, forze di polizia e organismi statali per il contrasto alle “migrazioni illegali”, che vede la partecipazione di Frontex e l’integrazione dei database di Interpol, Europol e forze di polizia di diversi Paesi dell’Africa centrale e settentrionale interessati dalle rotte migratorie internazionali allo scopo di condividere informazioni e prassi di lavoro nel contrasto alle migrazioni irregolari.

Ancora più opaco risulta il ruolo svolto dal GCTF in collaborazione con la NATO per la progettazione degli interventi militari in aree interessate da fenomeni di estremismo violento:  


“Sebbene il GCTF abbia il proprio focus principale sul rafforzamento delle capacità di contrasto al terrorismo in ambito civile, [incluse] le strategie nazionali, i piani d’azione e gli interventi di formazione, i suoi contributi hanno un vasto campo d’applicazione, incluso l’ambito militare.”


È quanto dichiarato in una pubblicazione ufficiale del Forum intitolata Promoting Effective Civil-Military Cooperation, che descrive alcune delle sinergie sviluppate tra il GCTF e l’alleanza atlantica e finalizzate all’incremento dell’efficacia di interventi militari, operazioni di sorveglianza e identificazione dei soggetti coinvolti in attività terroristiche:

  • Il documento Good Practices in the Area of Border Security and Management in the Context of Counterterrorism and Stemming the Flow of Foreign Terrorist Fighters  realizzato dal GCTF, che contiene linee guida e considerazioni in materia di controllo delle frontiere per il contrasto all’ingresso di combattenti terroristi stranieri (FTFs) da Paese a Paese, è stato discusso in sede di analisi e valutazione di rischi e obiettivi strategici di diversi Paesi membri. È significativo rilevare che il documento non fornisce alcun parametro per l’inquadramento della tipologia di soggetti classificati come “combattenti terroristi stranieri”, lasciando la definizione aperta ad interpretazioni arbitrarie;
  • Fra il 2018 e il 2019, una delegazione del gruppo di lavoro NATO su Contrasto ai Sistemi d’Arma Aerei Autonomi (C-UAS WG) ha inoltre partecipato alla GCTF Initiative to Counter Unmanned Aerial System Threats, un’iniziativa di formazione dedicata alla creazione e alla condivisione di saperi e buone pratiche su progettazione, coordinamento e gestione di interventi efficaci di risposta alla minaccia rappresentata dall’uso terroristico di sistemi d’arma aerei autonomi (UAS o UAV). L’iniziativa ha prodotto due strumenti per facilitare l’individuazione e la sorveglianza dei combattenti terroristi stranieri (FTFs, identificati nei due documenti attraverso l’esempio dei combattenti stranieri affiliati a Daesh/ISIS, senza alcun inquadramento giuridico o definizione standard del fenomeno che consenta di identificare in maniera univoca e oggettiva le fattispecie che rendono un individuo classificabile come FTF): il New York Memorandum on Good Practices for Interdicting Terrorist Travel , e il Berlin Memorandum on Good Practices for Countering Terrorist Use of Unmanned Aerial Systems , del quale è interessante evidenziare che raccomanda (vedasi il paragrafo Buone pratiche, n.14) la cooperazione fra autorità statali, forze armate e produttori di armamenti in virtù della “dimostrata relativa efficacia” delle Partnership Pubblico-Privato (PPPs) nel contrasto alle minacce terroristiche;
  • La Battlefield Evidence Policy, uno strumento sviluppato dalla NATO nel 2020 per la raccolta di prove sul campo e altri elementi volti all’identificazione dei combattenti di organizzazioni terroristiche, è stato creato anche a partire dall’ Abuja Recommendations on the Collection, Use and Sharing of Evidence for Purposes of Criminal Prosecution of Terrorist Suspects sviluppato dal GCTF;
  • Un’ulteriore sinergia ha visto la luce a gennaio 2020, quando gli allora co-presidenti del GCTF, Canada e Marocco, hanno dedicato una sessione di formazione sul ruolo e le competenze messe a disposizione dal Forum al Comitato Politico della NATO.


Se l’agenda politica e l’operato del GCTF possono destare alcune legittime perplessità, in considerazione delle ben note conseguenze nefaste degli approcci tradizionali di carattere esclusivamente militare e securitario nella lotta al terrorismo internazionale, la prospettiva di un biennio che potrebbe vedere l’Egitto alla guida del Forum appare più che inquietante.



Il terrore al potere: esportare il modello di contro-terrorismo egiziano?


Membro del GCTF da diversi anni, l’Egitto è già alla guida, insieme all’UE, del Gruppo di lavoro per il Capacity Building in Africa orientale, e attualmente candidato a divenire uno dei due Paesi leader del Forum per il biennio 2022-2024.

Il Consiglio d’Europa ha approvato una mozione per la candidatura congiunta di UE ed Egitto alla presidenza del GCTF l’11 gennaio 2022, secondo la denuncia diMiddle East Eye.

Come riportato sul sito ufficiale del Forum, ciascun Paese membro può presentare una candidatura congiunta insieme ad un altro Paese membro appartenente ad una diversa regione (ad esempio, un Paese mediorientale può candidarsi insieme ad un Paese europeo) e a ottenere il titolo di presidenza saranno i due Paesi (o entità sovranazionali, come nel caso dell’UE) maggiormente votati dagli altri membri in occasione dell’ultimo Incontro di Coordinamento prima della scadenza del mandato dei Paesi leader in carica. Allo scadere del biennio, il mandato di presidenza può essere rinnovato.

Nel nostro caso, l’elezione si terrà nel mese di marzo 2022, e il biennio di presidenza decorrerà da settembre, quando i nuovi eletti entreranno in carica subentrando a Canada e Marocco.


The role of the countries co-chairing the GCTF è di fornire una linea strategica e di gestione delle attività del Forum. Se la coppia UE-Egitto dovesse venire eletta, il regime militare guidato da el-Sisi avrebbe il potere di contribuire ad influenzare le politiche di sicurezza e di contrasto al terrorismo a livello mondiale almeno per i prossimi due anni.


Quale modello di contro-terrorismo rappresenta l’Egitto dei militari, e quale visione del tema sicurezza promuovono le sue attuali politiche?


Il presidente el-Sisi, al quale numerosi governi occidentali guardano con benevolenza, vedendo il lui l’uomo forte “in grado di garantire la stabilità del Medio Oriente”, ha costruito e rafforzato il consenso interno ed internazionale intorno al proprio governo facendo leva sullo spauracchio del radicalismo violento e proponendo in risposta la linea dura rappresentata dalla legge marziale e dalla guerra al terrore improntata all’approccio hard power.


Quasi nove anni dopo la sua ascesa al potere nel 2013, tuttavia, il bilancio di quella guerra al terrore appare tragico. La demonizzazione mediatica e discorsiva e la progressiva criminalizzazione della Fratellanza Musulmana, dai dirigenti di partito, ai semplici simpatizzanti e alle loro famiglie, hanno contribuito alla polarizzazione dell’area politica di ispirazione religiosa, mentre le operazioni militari volte a neutralizzare i gruppi armati nella penisola del Sinai hanno colpito indiscriminatamente migliaia di civili delle comunità locali, innescando una nuova spirale di violenza e ritorsioni.


Che l’opposizione alla Fratellanza Musulmana portata avanti dall’esecutivo di Sisi fosse destinata ad intrecciarsi inestricabilmente ad una brutale repressione del dissenso politico, fornendo alla violenza del regime l’alibi della difesa della laicità di stato, era evidente già dal 2013, quando le forze speciali egiziane reprimevano le proteste di piazza Rabaa Al-Adaweya con modalità che Human Rights Watch ha equiparato ad un crimine contro l’umanità.


Accanto alla repressione del dissenso politico civile e nonviolento per mezzo di una potente quanto opaca macchina giudiziaria (dal 2013 in poi, si parla di circa 60mila arresti per reati politici e d’opinione) e di un’ambigua legislazione in materia di terrorismo che lascia campo libero ad applicazioni strumentali, la guerra al terrore di el-Sisi è anche un conflitto armato: la cosiddetta “guerra invisibile” nel Sinai, che fra il 2013 e il 2018 è costata la vita di oltre7 mila persone (contando sia civili che combattenti e membri delle forze armate e delle autorità statali). La campagna di contro-terrorismo, basata su un approccio reattivo e repressivo piuttosto che preventivo e orientato alla de-escalation, ha visto massicce operazioni ritorsive contro le comunità locali e le famiglie dei presunti terroristi, che includono arresti di massa, bombardamenti a tappeto su infrastrutture civili, la distruzione di nuclei abitativi, e l’esodo forzato di migliaia di persone.


Il risultato di questo approccio esclusivamente armato alla minaccia terroristica è un’escalation esponenziale dei livelli di violenza da parte di tutti gli attori in campo: secondo dati del Tahrir Institute for Middle East Policy, gli attacchi condotti da gruppi armati di ispirazione wahabita, nazionalista o “religioso-nazionalista” sono aumentati da un numero di 37 nella prima metà del 2013 (prima dell’ascesa dei militari al potere e del massacro di Rabaa) a 339 nella seconda metà dello stesso anno. Dalla rimozione del presidente Morsi (luglio 2013) alla fine dell’anno 2018, il numero di attacchi terroristici registrati nel Paese ammontava a circa 2’819, dei quali oltre la metà ha avuto luogo nella penisola del Sinai.


Alla luce di questo drammatico bilancio, parlare di inefficacia delle politiche egiziane di contrasto al terrorismo è semplicemente fuorviante: la “guerra al terrore” di el-Sisi si configura come una lunga sequela gravi violazioni dei diritti umani equiparabili a crimini di guerra.


Se l’Egitto dovesse venire scelto, insieme all’Unione europea, per guidare i lavori del GCTF per il biennio 2022-2024, dovremmo aspettarci una riproposizione di quel medesimo approccio bellicista, criminale e inefficace all’agenda internazionale contro l’estremismo violento.

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